In questo articolo di Federica Mazzoli si parla in modo chiaro e diretto della “specificità” di ogni dislessico, e di come sia importante basarsi non solo sui deficit del bambino, ma anche sulle sue potenzialità.
Partiamo da una definizione: La Dislessia è un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA). Con questo termine ci si riferisce ai soli disturbi delle abilità scolastiche ed in particolare a: DISLESSIA, DISORTOGRAFIA, DISGRAFIA E DISCALCULIA.
La principale caratteristica di questa categoria è la “specificità”; ovvero il disturbo interessa uno specifico dominio di abilità (lettura, scrittura, calcolo) lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Ciò significa che per avere una diagnosi di dislessia, il bambino NON deve presentare: deficit di intelligenza, problemi ambientali o psicologici, deficit sensoriali o neurologici. (Associazione Italiana Dislessia-AID).
In Italia i due parametri di riferimento per la diagnosi di dislessia sono la velocità di lettura (sillabe al secondo) e l’accuratezza (numero di errori commessi). Ma, essendo l’italiano una lingua “trasparente” (una serie di lettere corrisponde quasi univocamente a determinati suoni), l’elemento cruciale è determinato dalle sillabe al secondo (Tressoldi, 1998; Stella, 2000; Stella, di Blasi, Giorgetti e Savelli, 2003).
È importante iniziare a capire che definire un bambino “dislessico” in realtà ha poco significato; nella pratica quotidiana, come clinici, insegnanti e mamme, non importa sapere se il piccolo rientra all’interno dei canoni convenzionale indicati dai manuali statistici diagnostici.
Ciò che è veramente essenziale conoscere, ai nostri occhi, sono i punti di forza e di debolezza del bambino che stiamo valutando; ci interessa conoscere non solo la sua velocità e gli errori che commette nella lettura, ma anche il funzionamento di altre aree cognitive, quali le memorie, i diversi aspetti dell’attenzione, della visuo-percezione e del linguaggio (Benso, 2004).
Se si riflette su quanto è emerso si può intuire immediatamente l’impossibilità di trovare un “dislessico” uguale ad un altro (Benso, Stella, Zanzurino, Chiorri, 2005); allora perché cercare a tutti i costi di trovare risposte alla domanda “Ma Gino è o non è dislessico?”. Perché non iniziamo noi, operatori, clinici, mamme ed insegnanti a sostituire questa richiesta con “Quale è il profilo cognitivo di Gino? Quali sono i suoi punti di forza e le sue debolezze?”. Comprendere che è paradossale identificare un bambino con un’etichetta significa abbracciare l’idea che non esiste un bambino uguale ad un altro, così come non esiste una persona uguale ad un’altra (Benso F. e Benso E., in press). Ognuno di noi ha delle potenzialità, delle abilità e dei limiti che ci rendono unici; così è per i nostri bambini.
Spesso dietro ad una definizione classificatoria (“il dislessico è così…”) si nasconde un mondo che è nostro preciso dovere esplorare perché solo in questo modo possiamo impostare interventi mirati ed interagire con genitori ed insegnanti sfruttando le abilità e potenziando le difficoltà; tutto ciò salvaguardando l’autostima e contenendo l’emotività dei bambini con disturbo specifico d’apprendimento.
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