Se, quindi, mentre si è allo zoo con la propria figlia di due anni, per insegnarle i nomi degli animali, si indica la giraffa, dicendo “Guarda, ecco la…. mmmm… giraffa”, non si fa che allertare la bambina che quella parola che tarda ad arrivare è un concetto nuovo, su cui focalizzarsi. E verso i due anni di età, i piccoli sono in grado di utilizzare al meglio questo tipo di “aiuto” linguistico.
A quell’età sono moltissime le informazioni che i bambini devono immagazzinare quando ascoltano parlare gli adulti, fra cui molte parole che non hanno mai sentito prima. Se il cervello del bambino aspetta fino a che la parola venga pronunciata e poi cerca di capirne il significato, rischia di perdere quello che viene dopo, spiega Richard Aislin, uno degli autori dello studio pubblicato su Developmental Science, insieme a Celeste Kidd e Katherine White. Quindi, “più previsioni è in grado di fare chi ascolta su ciò che sta per essere comunicato, meglio riuscirà a comprenderlo”, chiarisce il professore.
I ricercatori hanno studiato tre gruppi distinti di bambini. Ognuno sedeva in braccio a un genitore davanti ad uno schermo, con un meccanismo in grado di seguire il movimento dell’occhio del piccolo. Due immagini apparivano sul monitor, una familiare – ad esempio un libro – un’altra inventata, cui veniva associato un nome di fantasia. Una voce registrata parlava degli oggetti sullo schermo: quando si interrompeva o esitava, il bambino istintivamente guardava verso l’oggetto sconosciuto, piuttosto che verso quello noto, circostanza che si è verificata nel 70 per cento dei casi.
Le disfluenze – queste pause ed interruzioni del discorso – hanno quindi una funzione informativa, sostengono gli scienziati. “Sono importanti perché segnalano al bambino che sta per arrivare qualcosa cui prestare particolare attenzione”, spiega Laura D’Odorico, esperta dell’acquisizione del linguaggio e preside della Facoltà di Psicologia dell’università Milano-Bicocca.
Lo studio, sottolinea D’Odorico, si inserisce in una questione più ampia che riguarda il dibattito sullo sviluppo del linguaggio. “Da un lato c’è la posizione di chi considera il linguaggio una facoltà innata, come Chomsky, per non ci sarebbe poi così bisogno del modello fornito ad esempio dei genitori, spesso, appunto, imperfetto. Questa ricerca segue invece un filone differente, che valorizza il ruolo dell’esempio pratico, da cui il bambino ricava input rilevanti ascoltando gli altri parlare intorno a sé, per poi apprendere a sua volta a parlare”.
Già altri studi, ricorda la professoressa, hanno evidenziato l’importanza di vari indizi del parlato che il bambino usa, come il fatto che i genitori innalzano il tono di voce quando stanno per introdurre parole nuove. “Anche quello diventa un segnale per il bambino che si sta per introdurre una cosa nuova”, aggiunge.
Lo studio americano sottolinea che il bambino utilizza queste disfluenze in modo ottimale quando è già piuttosto grande, verso i due anni. Uno stadio in cui è già in grado di formare frasi rudimentali, mettendo insieme due-quattro parole, e può già contare su un “bagaglio” di qualche centinaio di vocaboli. Non vale, quindi per i più piccoli.
“E sarebbe interessante scoprire se gli stessi risultati si osservano, oltre che in laboratorio, anche sul parlato spontaneo dei genitori”, conclude D’Odorico, “quando parlano coi bambini con le stesse pause e imperfezioni”, non pronunciate da un monitor.
Fonte: La Repubblica