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LA TECNOLOGIA E I SOCIAL SONO DANNOSI?

La narrazione sull’uso della tecnologia si nutre del sensazionalismo, superando i riferimenti scientifici affidabili. Senza voler negare l’esistenza della possibilità di effetti negativi del digitale, questi devono essere studiati considerando soprattutto, a seconda delle età, quei soggetti che, per una complessità di fattori, sono più esposti al rischio di problematiche cognitive e comportamentali. La sfida della ricerca dovrebbe essere quella di individuare questi soggetti per poter studiare come e perché l’esposizione alla nuova tecnologia potrebbe rappresentare per loro un rischio.

Riguardo all’uso della tecnologia digitale, però, sta accadendo che la narrazione mediatica dominante stia condizionando molte ricercatrici e molti ricercatori, che hanno scelto di abbandonare i toni cauti e asciutti della descrizione scientifica per appropriarsi del registro linguistico apocalittico proprio di una fazione politica ultraconservatrice, sacrificando le metodologie, mettendo in stallo le conoscenze scientifiche e plasmando le ricerche successive a trovare rapporti auto-confermativi più che a soppesare le complesse variabili da analizzare e la validità delle misure usate, come ci ricorda la neuropsicologa Tiziana Metitieri.

La domanda che ci si pone, allora, è: i social fanno male? E, se sì, vietarli è la via migliore per tutelare i minori?

Al momento non ci sono ancora prove scientifiche che abbiano un nesso causale tra la crescita del tempo trascorso dagli adolescenti sui social media da un lato e l’aumento dei problemi di salute mentale dall’altro.

Le ricerche in questo settore, però non sono unanimi. Ad esempio, la Commissione Scienza e Tecnologia del Parlamento del Regno Unito, dopo un’inchiesta sull’impatto di social media e screen time nei giovani, ha evidenziato che non c’è alcuna autentica attendibilità nelle ricerche scientifiche che vedono solo un pericolo nelle tecnologie e nel digitale. Quel che le rende inaffidabili sono difetti di metodo, e nella ricerca il metodo è (quasi) tutto.

In uno studio recente del 2024, i ricercatori Vuorre e Przybylski, (noti nella comunità scientifica per il loro impegno nel promuovere l’integrità, la riproducibilità delle ricerche, l’accesso aperto ai risultati e per il contrasto al panico morale verso Internet e le tecnologie digitali), hanno analizzato dati relativi a poco meno di due milioni e mezzo di soggetti di età compresa tra 15 e 89 anni, raccolti in 168 paesi dal 2005 al 2022. Gli autori smentiscono il panico generalizzato sull’uso di Internet e dello smartphone che è stato alimentato negli ultimi anni su basi inconsistenti quando non addirittura artefatte. “In tutti i paesi e per tutti i dati demografici, le persone che avevano accesso a Internet, accesso a uno smartphone o che utilizzavano attivamente Internet, riportavano maggiori livelli di soddisfazione di vita, esperienze positive, senso di scopo e benessere fisico, comunitario e sociale, e livelli più bassi di esperienze negative”.

Nonostante i limiti, che gli autori stessi hanno evidenziato, questo studio dimostra che le persone che usano Internet, indipendentemente dal paese in cui abitano, riferiscono un maggiore benessere rispetto alle persone che non lo usano. Sono numerosi gli studiosi che vanno oltre il determinismo tecnologico che vuole incolpare smartphone e social media dei problemi dei giovani.

La canadese Candice Odgers, psicologa dello sviluppo, scrive:

i social media sono uno dei fattori meno influenti nel predire la salute mentale degli adolescenti. I fattori più influenti includono una storia familiare di disturbi mentali, l’esposizione precoce alle avversità, come violenza e discriminazione, e fattori di stress legati alla scuola e alla famiglia. Alla fine dello scorso anno, le Accademie nazionali di scienze, ingegneria e medicina hanno pubblicato un rapporto in cui si concludeva: le ricerche disponibili che collegano i social media alla salute mostrano piccoli effetti e associazioni deboli, che possono essere influenzate da una combinazione di esperienze buone e cattive. Contrariamente all’attuale narrazione culturale secondo cui i social media sono universalmente dannosi per gli adolescenti, la realtà è più complicata.

Piuttosto che il divieto assoluto, cosa che sta succedendo in alcune nazioni, in alcuni comuni italiani (come a Torino, e altre 35 città stanno partendo) è partito il patto digitale, linee guida create da comunità di genitori per educare all’uso della tecnologia, in particolare, alla consegna e all’uso dello smartphone per i più giovani. Per evitare problemi di salute o attacchi online, educatori e famiglie di studenti di scuole primarie e secondarie si mettono in rete: è uno dei modi possibili per confrontarsi su regole il più possibile unitarie e coese nello sviluppo digitale dei figli.

Il manifesto del progetto parte dalla considerazione che l’educazione digitale vada offerta in modo coordinato da parte di una comunità (gruppi di genitori, scuole, pediatri, oratori, società sportive…) in modo da diminuire la pressione sociale rispetto all’adozione della tecnologia e aprire uno spazio per un dialogo tra famiglie. Si tratta di un patto di corresponsabilità, in cui genitori e figli – insieme alla propria comunità di riferimento – si impegnano a rispettare regole condivise.

Di questo e molto altro ho scritto nel mio libro LA SCUOLA DEI CANARINI. UNA SCUOLA PER TUTTI, UNO STUDENTE ALLA VOLTA. In vendita su Amazon: La scuola dei canarini: Una scuola per tutti, uno studente alla volta – Grenci, Rossella – Libri

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