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Brano tratto da un’intervista allo psicologo Fabio Celi, autore di numerosi libri pubblicati soprattutto dalle Edizioni Erickson.
 
Qual è il loro grado di diffusione e di impiego in ambito riabilitativo anche all’esterno del mondo della scuola?
A macchia di leopardo, secondo me. Ci sono terapisti della riabilitazione che hanno fatto del computer un quotidiano ferro del mestiere. Lo usano in modo sistematico e ne sono entusiasti (anche perché vedono l’entusiasmo dei loro piccoli pazienti). Molti mi raccontano che usano spesso alcuni software didattici non solo per favorire un certo processo di apprendimento, ma anche come rinforzatori dinamici: prima fanno lavorare il bambino con mezzi tradizionali e gli promettono che poi, se si impegnerà e raggiungerà certi risultati, potrà usare il computer nell’ultimo quarto d’ora di seduta. Ma temo che si tratti ancora di minoranze. Penso che la resistenza alla diffusione di questi mezzi non sia solo di ordine pratico, o economico, o legata alla carenza di formazione specifica del terapista, spesso difficile da procurarsi, ma anche da alcuni pregiudizi, connessi alla paura di produrre apprendimenti meccanici o di “addestrare” il paziente. Non è questa la sede per una discussione così complessa. Mi limiterò ad osservare che, secondo me, queste idee sono pregiudizi due volte. Prima di tutto perché non sempre gli apprendimenti meccanici sono negativi: a volte sono i soli possibili, altre volte sono i più adatti in certe specifiche circostanze. Secondo, perché il computer produce apprendimenti meccanici solo se gli diciamo di farlo. Un computer non fa nulla (almeno per ora!) che non siamo noi ad ordinargli di fare. Così, se gli chiediamo di favorire la metacognizione, o comportamenti cooperativi tra compagni, o un atteggiamento attivo di costruzione di una conoscenza nuova, il computer obbedirà. Dipende solo da noi.
 

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