Volete dei buoni motivi per fare odiare la lettura ai bambini? Ebbene, Gianni Rodari ve ne dà 9! Li trovate nel libro Scuola di fantasia, una piacevole lettura in cui sono raccolti gli articoli, saggi ed interventi pubblicati lungo l’arco di oltre vent’anni, sulla scuola e sul rapporto educativo tra adulti e bambini. Un libro che pare scritto oggi: Rodari era davvero avanti!
Ed ecco qui, dal V al IX, i motivi (terribili!), per i quali noi adulti spegniamo il piacere di leggere nei bambini:
V. Dare la colpa ai bambini se non amano la lettura
Questo non è propriamente un sistema: è un atteggiamento generale, che però ha l’importanza e l’efficacia del sistema. Dare la colpa ai bambini, oltre che facile, è comodissimo, perché serve a coprire le colpe proprie.
Riconosciamo, rovesciando in parte un ragionamento precedente, che i bambini non leggono abbastanza, che le tirature potrebbero essere maggiori, che il boom del libro per ragazzi è ancora di là da venire. Se cerchiamo dei perché un po’ meno comodi dell’accusa prepotente che si rivolge ai bambini, troviamo colpe di genitori: vi sono troppe case in cui non entra mai un libro, vi sono migliaia di laureati senza biblioteca, ci sono tanti padri che non leggono nemmeno il giornale, e poi si meravigliano se i figli fanno come loro. Vi sono colpe pubbliche: della scuola e dello Stato; e vi sono le colpe della nostra cultura, sempre troppo aristocratica per porsi dei compiti pedagogici. Leggiamo sui giornali brillanti articoli di brillanti e colti personaggi che deridono il pubblico che compra a dispense la Divina Commedia, o una delle tante enciclopedie a puntate. Forse rimpiangono il tempo in cui a puntate si compravano solo i romanzi di Carolina Invernizio.
In America, in Inghilterra, in Russia, i professori universitari non disdegnano di scrivere opere di divulgazione scientifica rivolte ai ragazzi: da noi i divulgatori di qualità si contano ancora su mezza mano.
Piú in generale, non c’è una presa di coscienza collettiva della società adulta nei confronti della società infantile. Nel campo dell’editoria per ragazzi il criterio commerciale prevale tutt’ora sul criterio pedagogico: esiste quasi un collegamento tra le punte avanzate della pedagogia e gli editori, per i quali “educativo” è generalmente ancora sinonimo di “noioso”.
Accusato come il solo responsabile d’una situazione complessa, e ancor piú complicata dalla crisi degli ideali educativi fino a ieri pacificamente accettati, il bambino reagisce come può: scappando in cortile a giocare, o nascondendo sotto il cuscino il suo caro albo a fumetti.
VI. Trasformare il libro in uno strumento di tortura
Questo sistema, a dispetto del rinnovamento didattico e delle belle parole, trova intensa applicazione nelle scuole d’ogni ordine e grado. Gli esperti cominciano a servirsene fin dalla prima elementare, assegnando ai bambini per compito di copiare pagine su pagine del loro primo libro di lettura. In seconda al lavoro di copiatura (che per il bambino non ha il minimo senso e non una briciola di interesse) si può aggiungere il lavoro di divisione in sillabe. Sai che divertimento. Col tempo, arriva l’analisi grammaticale, poi fa il suo ingresso trionfale l’analisi logica. Prendete un bel raccontino di Tolstoj, condannate uno scolaretto ad analizzare nomi e pronomi, verbi e avverbi, e vi dò per certo che, vita natural durante, egli associerà il nome di Tolstoj a una viscerale sensazione di fastidio che lo terrà lontano da Anna Karenina come dalla peste e gli farà schivare Guerra e pace come schiverebbe un nugolo di tafani.
La trasformazione del libro in uno strumento di fatica prosegue e s’intensifica attraverso le varie fasi del riassumere, del mandare a memoria, del descrivere le illustrazioni, ecc. Tutti questi esercizi moltiplicano le difficoltà della lettura, anziché agevolarle, fanno del libro un pretesto togliendogli ogni capacità di divertire, se originariamente ne possedeva, di commuovere se ne era capace, d’interessare se era concepito per interessare.
La lettura non è piú un fine da perseguire lodevolmente, ma un mezzo per attività piú serie, o presunte tali. Ciò corrisponde perfettamente alla concezione del bambino come mezzo: sia il fine il voto, la pagella, I’addestramento alla pazienza, la preparazione alla vita. Chissà quale preparazione a quale vita: presumibilmente alla vita concepita come una sofferenza, per la quale bisogna essere allenati. Il libro che entra nella scuola sotto lo schema del rendimento scolastico produce riflessi meramente scolastici: non diventa la cosa bella e buona, di cui si ha bisogno, ma la cosa che serve al maestro per esprimere un giudizio. La scuola come tribunale, anziché come vita. Cosí è esclusa la difficoltà principale, cioè quella di far nascere il bisogno della lettura, che è un bisogno culturale, non un istinto, come mangiare bere e dormire, non una cosa della natura.
VII. Rifiutarsi di leggere al bambino
La voce della madre, del padre (e del maestro) ha una funzione insostituibile. Tutti obbediamo a questa legge, senza saperlo, quando raccontiamo una favola al bambino che ancora non sa leggere, creando, per mezzo della favola, quel “lessico familiare” nel quale l’intimità, la confidenza, la comunione tra padri e figli s’esprimono in modo unico e irripetibile. Ma quanti hanno la pazienza di leggere una favola ai figlioli, magari anche quando già sanno leggere da soli, o saprebbero ma sono pigri per farlo, o lo fanno abitualmente, ma pure hanno bisogno, di quando in quando, di non essere soli con la favola?
La favola scritta è già il mondo: non è piú “lessico familiare”, è contatto con una realtà piú vasta, conosciuta attraverso la fantasia, che nei bambini è come il terzo occhio.
Si tratti delle novelle di Andersen o della vita degli insetti, di Pinocchio o di Verne, e magari, eccezionalmente, di Paperino e Paperon de’ Paperoni, quel che conta nella lettura comune non muta la sostanza: è la promozione del libro da mero oggetto di carta stampata a intermediario affettuoso, a momento della vita.
Ci vuol pazienza, per questo. Ci vuole anche abilità: bisogna saper leggere con espressione, o sforzarsi di farlo; bisogna anche saper tradurre, perché non sempre il vocabolario scritto corrisponde a quello d’una perfetta lettura, e non sempre gli scrittori scrivono chiaro, o pensano al lettore prima d’adoperare un termine inconsueto, una parola aulica, un vezzo letterario fine a se stesso.
VIII. Non offrire una scelta sufficiente
Noi non leggiamo il primo libro che ci capita per le mani. Ci piace scegliere. Raramente, invece, al bambino è offerta una scelta sufficiente. Gli regaliamo un libro di favole, lo mette da parte: ne concludiamo che non gli piacciono le favole, mentre può darsi che in quel periodo abbia semplicemente altri interessi. Ecco perché la bibliotechina, personale o collettiva, è indispensabile. Venti libri sono meglio di uno, e cento meglio di venti, perché possono suscitare curiosità diverse, appagare o stimolare interessi diversi, rispondere ai mutamenti di umore, alle svolte della personalità, della formazione culturale, della informazione.
S’intende che dietro una bibliotechina ci deve essere un delicato lavoro di aggiornamento, una riflessione attenta, una sensibilità vigile. Non si ottiene niente per niente, né dalla natura né dai bambini. Ma qui entrerei, senza volerlo, nella serie delle indicazioni dette positive, mentre mi sono assunto il compito di elencare alcuni metodi negativi (nella speranza, certo, che l’elencazione stessa suggerisca qualche antidoto).
IX. Ordinare di leggere
Il nocciolo di questo sistema è già presente in altri ai quali ho accennato in precedenza. Esso è però tanto importante che merita una trattazione a parte. È indubbiamente il piú efficace, se si vuole che i ragazzi imparino a odiare i libri. Sicuro al cento per cento. Facilissimo da applicare.
Si prende un ragazzo, si prende un libro, li si mettono entrambi a tavolino e si proibisce che il terzetto si divida prima d’una certa ora. A maggior garanzia che l’operazione riesca,si annunzia al ragazzo che al termine del tempo prescritto dovrà riassumere a voce le pagine lette. Le applicazioni scolastiche sono anche piú semplici. Non c’è che da dire: “Leggete da qui fin qui”, e l’ordine sarà senz’altro eseguito, anche con la complicità dei genitori.
Sia dall’uno che dall’altro esperimento il ragazzo ricaverà per suo conto una lezione che non dimenticherà: e cioè, che leggere è una di quelle cose che bisogna fare perché i grandi la comandano, uno di quei mali inevitabili, collegati con l’esercizio dell’autorità da parte degli adulti. Ma appena saremo grandi anche noi, appena saremo adulti a nostra volta, appena saremo liberi…
A giudicare a posteriori, cioè dal numero degli adulti legalmente alfabetizzati che, una volta usciti dalla minore età, non leggono piú un rigo, questo dev’essere, di tutti i sistemi, il piú diffuso.
Da qualche centinaio d’anni i pedagogisti vanno ripetendo che come non si può ordinare a un albero di fiorire, se non è la sua stagione, se non sono state create le condizioni adatte, cosí non si può ottenere alcunché dai bambini per la strada larga dell’obbligo, ma bisogna per forza cercare strade meno agevoli, sentieri meno comodi. Ma i pedagogisti predicano, e il mondo va per la sua strada. Il disprezzo per la teoria è antico quanto il proverbio secondo il quale “Val piú la pratica che la grammatica”.
Parole come “disciplina”, “severità” (che è la caricatura della fermezza) e simili, hanno corso tuttora come moneta buona, nonostante la progressiva svalutazione. La scienza del “creare condizioni” perché la pianta umana voglia ciò che deve, e accetti, anzi, senza desideri, l’innesto della cultura, e abbia bisogno del meglio, e dia insomma tutti i frutti che può dare, è nella pratica ancora ai primi passi. Una tecnica si può imparare a scapaccioni: cosí la tecnica della lettura. Ma l’amore per la lettura non è una tecnica, è qualcosa assai di piú interiore legato alla vita, e a scapaccioni (veri o metaforici) non s’impara.