Diario di scuola, l’ultimo libro di Daniel Pennac, lo scrittore francese noto al pubblico per il Ciclo di Malaussène e per il libro Come un romanzo, affronta il grande tema della scuola dal punto di vista degli alunni. In verità dicendo “alunni“ si dice qualcosa di troppo vago: qui è in gioco il punto di vista degli “sfaticati“, dei “fannulloni“, degli “scavezzacollo“, dei “cattivi soggetti“, insomma di quelli che vanno male a scuola. Pennac, ex somaro lui stesso, studia questa figura popolare e ampiamente diffusa dandogli nobiltà, restituendogli anche il peso d‘angoscia e di dolore che gli appartiene. Il libro mescola ricordi autobiografici e riflessioni sulla pedagogia, sulle universali disfunzioni dell‘istituto scolastico, sul ruolo dei genitori e della famiglia, sulla devastazione introdotta dal giovanilismo, sul ruolo della televisione e di tutte le declinazioni dei media contemporanei.
Racconta Pennac nel suo Diario di scuola: «Ero negato a scuola e non era mai stato altro che questo. Il tempo sarebbe passato, certo, e poi la crescita, certo, e i casi delle vita, certo, ma io avrei attraversato l‘esistenza senza giungere ad alcun risultato. Era ben più di una certezza, ero io. Di ciò alcuni bambini si convincono molto presto e se non trovano nessuno che li faccia ricredere, siccome non si può vivere senza passione, in mancanza di meglio sviluppano la passione del fallimento». Fin dal primo anno di scuola Daniel si è mostrato in seria difficoltà davanti all’apprendimento (un anno intero per imparare la prima lettera dell’alfabeto) e, col trascorrere del tempo, le cose non sono andate meglio. A quel punto i genitori, in particolare un padre molto spiritoso e solo apparentemente distratto, hanno scelto per lui il collegio. Ecco così da parte di Pennac un imprevedibile “elogio del collegio”: almeno la vita da interno impedisce “all’asino” la fatica di inventare doppie bugie, per i genitori e per gli insegnanti. Costringe allo studio in ore stabilite, permette una maggiore conoscenza tra insegnanti e studenti e poi può anche capitare di trovare qualche salvatore, qualcuno cioè che sappia dare quella fiducia e quegli impulsi capaci di fare emergere le qualità nascoste. E Daniel Pennac dichiara di dovere ad alcuni insegnanti la sua vita di persona riuscita e di insegnante. La laurea in lettere nel 1969 e poi l’insegnamento (il padre gli scriverà più o meno questo concetto: se ci è voluta una rivoluzione per farti prendere una laurea, per il dottorato ci vorrà almeno una terza guerra mondiale…) e migliaia di ragazzi, molti dei quali “asini”, passati davanti a lui e come dirà spesso “diventati”, cioè cresciuti e rivisti a volte dopo molti anni. Ma quanto è grande il dolore di chi non capisce? E come è difficile pensare: “non ci arriverò mai”! Pennac ci regala una vera lezione, ci fa capire come è possibile insegnare, ad esempio la grammatica, facendola capire anche a chi è un po’ più “lento” rispetto alla media degli studenti e rispetto alle esigenze del professore. C’è un’indicazione fondamentale per capire la differenza tra un “buon” professore e uno “cattivo”: è buono quello che riesce a calarsi davvero nella classe. E poi è necessario sfatare certe idee: il dettato, la valutazione, lo studio a memoria sono cose che possono essere valide o dannose a seconda di come vengono proposte. Seguono esempi molto efficaci di come certe tecniche d’insegnamento tradizionalmente odiate possono invece diventare divertenti e, soprattutto, utilissime. L’esperienza di professore Pennac l’aveva fatta nei primi anni con classi particolarmente difficili: classi differenziali che molti definivano soprattutto “delinquenziali” e la sua carriera ha visto anche sconfitte mai dimenticate. Il libro prosegue con piacevolissimi aneddoti che raccontano lo scrittore mentre sta scrivendo il libro, mentre ascolta alla radio dibattiti su un film visto, mentre pensa alla moglie, mentre dialoga con dei ragazzi sconvolti di ritrovare nei suoi libri le parolacce che usano quotidianamente, quando incontra un ragazzo con cui ha (sbagliando) un comportamento da adulto giudicante… Dopo tante critiche, viene tessuto l’elogio dei buoni insegnanti, l’elogio dell’istituzione denigrata che può essere per alcuni l’unica salvezza. Ma oggi i ragazzi sono gli stessi di qualche decennio fa? “Strappato alla società industriale nell’ultimo quarto del XIX secolo, fu consegnato cento anni dopo alla società di mercato che ne fece un bambino cliente”: è un consumatore, un cliente quello che oggi i professori si trovano davanti. Alcuni ragazzi dispongono del denaro dei genitori, altri si arrangiano. Spesso il professore non è preparato, non sa di avere davanti a sé un bambino cliente. Però lo può salvare “l’amore”, parola che non si dovrebbe usare ma che ha un potere magico. «La paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello… E quando divenni insegnante la mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare». E mentre noi ci rigiriamo nei meandri della sociologia e della pedagogia Daniel Pennac grida forte la verità più grande: «Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti. In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?».
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